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L’alcol in Italia: un rischio da prevenire per 9 milioni di italiani



Emanuele Scafato – direttore dell’Osservatorio nazionale alcol, Centro nazionale dipendenze e doping, Centro Oms per la ricerca sull’alcol

 

 

10 maggio 2018 - È stata pubblicata sul sito del ministero della Salute la relazione annuale che il Ministro produce ai sensi della Legge n. 125 del 30 marzo 2001. La relazione descrive il quadro epidemiologico italiano, aggiornato al 2016, correlato al consumo di bevande alcoliche, i modelli di trattamento per l’alcoldipendenza e la capacità di assistenza dei Servizi algologici, le iniziative intraprese dal ministero della Salute nell’anno passato. Sono inoltre presentati i risultati del Progetto nazionale che esamina nel dettaglio la valutazione e il monitoraggio delle politiche e delle azioni sanitarie e sociali in tema di alcol e problemi alcol correlati.

 

In occasione dell’Alcohol Prevention Day previsto il 16 maggio a Roma, verranno riaggiornate le stime da parte dell’Istat e dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Iss che confermano l’enorme impatto che tutte le bevande alcoliche hanno sugli italiani: sono quasi 9 milioni i consumatori a rischio che devono essere oggetto di interventi di salute pubblica di contrasto a comportamenti alcol-correlati rischiosi o dannosi per la salute.

 

Cosa dicono i dati

Dei circa 35 milioni di consumatori di bevande alcoliche più di 8,6 milioni (il 23,2% dei maschi e il 9,1% delle femmine sopra gli 11 anni di età) sono consumatori a rischio. Tra questi ci sono circa 800 mila minori, ai quali la vendita e somministrazione di bevande alcoliche sarebbe vietata sino ai 18 anni, altrettanti giovani sino ai 24 anni di età e 2,7 milioni di anziani.

 

Oltre 5,6 milioni di persone, in particolare adulti in età produttiva e anziani, eccede su base quotidiana le quantità di alcol tollerate dalle linee guida per una sana nutrizione e in maniera sempre più crescente fuori pasto. 

 

Il binge drinking (oltre 6 bevande alcoliche in un tempo ristretto con la finalità di ubriacarsi) è la modalità prevalente per gli 1,7 milioni di giovani: riguarda il 17% dei giovani tra i 18 ed i 24 anni di età, dei quali il 21,8% maschi e l’11,7% femmine.

 

In tutte le fasce di età il consumo rischioso è più frequente tra gli uomini che tra le donne, fatta eccezione per la fascia di età dei giovani sotto i 18 anni, dove non si osserva una differenza statisticamente significativa.

Circa la qualità del bere, si conferma la tendenza già in atto da circa un decennio che vede in calo i consumi esclusivi di vino e birra, soprattutto fra i giovani e le donne, e in aumento quelli di aperitivi, amari e superalcolici, in aggiunta alle due bevande, specie tra giovani, adulti sopra i 44 anni e anziani.

 

L’esposizione all’alcol è causa di circa 41 mila accessi nei Pronto soccorso, con diagnosi principale di abuso di alcol episodico, e di 57 mila ricoveri ospedalieri, il 42% dei quali ha come diagnosi principale una condizione alcol-correlata.

 

Rilevante la quota delle 41 mila violazioni del codice della strada per guida in stato d’ebbrezza contestate dalle forze dell’ordine che vede in primo piano il coinvolgimento di giovani sotto i 24 anni e gli ultra65enni.

 

Le ricadute dell’informazione sulla salute

Per una prevenzione efficace è determinante poter contare su un informazione valida e corretta. Purtroppo, la comunicazione e l’informazione sul consumo delle bevande alcoliche sono quotidianamente dominate dal dilagare di fake news che, dal web e dai social, ma anche dalla carta stampata e dai media, diffondono informazioni non affidabili o manipolate, influendo in misura rilevante sui comportamenti individuali e collettivi ed entrando in competizione con l’informazione scientifica e rigorosamente orientata a incrementare la consapevolezza sul tema dei rischi legati anche al consumo pur moderato di alcol, che non è mai proponibile nella generalizzazione e superficialità di messaggi di natura commerciale spesso proposti in contrasto alla logica di tutela della salute diffusa dalle istituzioni e dalla comunità scientifica.

 

Ci sono altri fenomeni che favoriscono il consumo rischioso di alcol: l’ampia disponibilità fisica ed economica delle bevande alcoliche e la normalizzazione sociale di attività che legano all’alcol eventi culturali, sportivi o musicali e propongono un modello di “bere felice”. Persino nelle scuole è stata di recente criticata l’impropria ammissione alla sensibilizzazione, prevenzione e formazione di soggetti commerciali, in pieno conflitto d’interesse, senza il coinvolgimento e le competenze sanitarie di chi dovrebbe essere legittimato nel ruolo delicato della prevenzione, e abilitati invece a introdurre al “bere responsabile” i minori per i quali l’unico messaggio plausibile di salute pubblica è non consumare alcolici almeno sino ai 18 anni, per rispetto delle norme, sino ai 25 anni per i danni alla cognitività e allo sviluppo in senso razionale del cervello. In aggiunta, l’accettazione sociale diffusa dell’uso, letteralmente, di alcol prima dei 18 anni non contrastata dalla disapprovazione delle sue forme manifeste e diffuse di intossicazione alcolica e l’abbassamento della percezione del rischio agisce da “ponte” alla diffusione di altri comportamenti illeciti che espongo all’uso di droghe come la cannabis e la cocaina.

 

Per fortuna buona parte dei consumatori-cittadini ha conoscenza e consapevolezza del fatto che l’alcol è una sostanza tossica, cancerogena, potenzialmente fatale quando il consumo in eccesso assume determinate caratteristiche, per esempio nella modalità del binge drinking.

 

Le donne sono un sottogruppo di popolazione sempre più attento alla propria salute e, dunque, scelgono sempre più frequentemente di non bere alcolici - il 50% circa delle donne italiane è oggi astemia o astinente - e si impegnano nel trasmettere in famiglia e nella società quegli elementi di buon senso che possono garantire una maggiore probabilità che le scelte individuali possano essere informate e consequenziali.

 

Le soglie di rischio

La sfida centrale è riuscire a innalzare i livelli di consapevolezza nella popolazione dell’impatto di quantità che rientrano nell’abitudine al bere percepito come “moderato”, corrispondenti a una quantità minima di 10 grammi di alcol puro al giorno (in pratica un singolo bicchiere) che tuttavia non possono rappresentare un parametro di riferimento assoluto. È infatti noto che per determinate persone (giovanissimi e anziani) o in determinate situazioni (comorbidità o assunzione di farmaci) la medesima quantità può essere rischiosa.

 

Va precisato che non esiste una bevanda alcolica - vino, birra o superalcolico, breezer, cocktail o amaro che sia - meno rischiosa: è la quantità di alcol nel sangue che nuoce. Il termine intossicazione è univocamente interpretabile in relazione alla quantità di alcol che non riesce ad essere metabolizzata dal fegato, e che non può eccedere i 6 grammi in un’ora. Facile comprendere che ingerito un bicchiere tipo di vino (125 ml), o un boccale di birra (330 ml) o un bicchiere di superalcolico (40 ml) che contiene in media 12 grammi di alcol, metà venga metabolizzato in un ora e l’altra metà nell’ora successiva; aggiungendo un secondo bicchiere, l’alcolemia nel sangue è oltremodo dannosa e rischiosa. Prima dei 18-21 anni di età, quando la capacità di metabolizzare l’alcol non è ancora completamente maturata, gli effetti tossici dell’alcol si verificano anche per quantità più basse. Nel comunicare il rischio e il limite, parlando alle persone, bisogna tenere conto che ogni generazione ha la sua bevanda di riferimento da indicare esplicitamente: con un anziano occorre far riferimento prevalentemente al vino, causa di consumo a rischio per oltre il 50% degli ultra65enni di sesso maschile; con un giovane non è fuori luogo stigmatizzare cocktail, breezer e birre consumati in maniera cumulativa durante le happy hour e negli open bar.

 

Più prevenzione per tutti

Evidentemente pensare a una prevenzione generalizzata, che vada bene per tutti, è impossibile e destinata a fallire; occorre, invece, che i singoli target siano oggetto di una sensibilizzazione mirata rispetto a consumi specifici legati a modelli culturali diversi ma comunque dannosi. Investire in sanità pubblica vuol dire disporre di risorse in grado di garantire il migliore livello possibile di salute per le persone, un diritto e un dovere nello stesso tempo. I tempi sono maturi per intervenire con strumenti tecnici di coordinamento, quale era la Consulta nazionale alcol prevista dalla Legge 125/2001, e predisporre politiche più mirate e misure più capaci di contrastare il dilagare di un fenomeno che appare essere in molti contesti e per molte ragioni fuori controllo.

 

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