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Global Burden of Disease Study 2010: promossa la sanità italiana

14 marzo 2013 - Già nello scorso mese di dicembre la rivista The Lancet ha dedicato un ampio spazio al Global burden of Disease Study 2010 (GBD 2010), l’indagine che valuta l’impatto delle patologie in termini di mortalità e disabilità. All’inizio di marzo 2013, poi, la rivista inglese ha pubblicato anche i risultati nazione per nazione, suscitando vivo interesse e anche qualche sorpresa.

 

Lo studio

Massive, collaborative and challenging: questi i tre aggettivi scelti per descrivere il GBD 2010. Si tratta, infatti, della più ampia indagine mai effettuata per descrivere su scala mondiale la distribuzione e le cause delle malattie e dei loro fattori di rischio. Ha richiesto 5 anni di lavoro e coinvolto 486 ricercatori appartenenti a 303 enti in 50 nazioni.

 

È stato coordinato dall’Institute for Health Metrics and Evaluation (Ihme) dell’Università di Washington con la collaborazione dell’Università del Queensland, l’Harvard School of Public Health, la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, l’Università di Tokyo, l’Imperial College London e l’Organizzazione mondiale della sanità.

 

Chris Murray, direttore dell’Ihme ha la paternità del QALY (Quality Adjusted Life Year) l’unità di misura che determina gli anni di vita guadagnati tenendo conto della qualità della vita e consente quindi di combinare in un unico “numero” le stime di mortalità e morbilità. Anche il GBD 2010, tuttavia, sembra destinato a diventare una pietra miliare per ragionare di salute e sanità: «Per i decisori, i ricercatori, i cittadini informati, l’approccio del Global Burden fornisce l’opportunità di osservare l’intero quadro, per confrontare le malattie e i fattori di rischio e per comprendere, in un determinato contesto (luogo, tempo, età, genere) quali siano i principali determinanti alla perdita di salute», ha spiegatolo stesso Murray.

 

Il GBD 2010 disegna un mondo in cui malattie infettive, materno-infantili e malnutrizione si stanno gradatamente riducendo. Ogni anno muoiono parecchi bambini in meno, ma cresce il numero dei giovani e degli adulti che si ammalano e perdono la vita per malattie croniche degenerative che sono ormai la causa dominate di mortalità e disabilità in tutto il mondo. Se dal 1970 la popolazione mondiale ha migliorato la propria aspettativa di vita di circa una decade, per gran parte di questi anni, ci dice il GBD 2010, non godrà di buona salute.

 

Il metodo

Il GBD 2010 rappresenta l’evoluzione del progetto commissionato nel 1990 dalla Banca Mondiale. Rispetto allo studio originale, è enormemente aumentata, di circa 400 volte, la quantità di variabili analizzate e di dati raccolti: il numero di condizioni esaminate è passato da 107 a 291, i fattori di rischio da 10 a 67, le macroregioni da 8 a 21. È possibile inoltre analizzare i dati per genere, per 20 gruppi di età e, grazie alla disponibilità di due serie di informazioni, stabilire la tendenza dei fenomeni nel corso del ventennio.

 

L’impatto delle malattie è descritto in termini di mortalità, anni di vita perduti per mortalità prematura (Years of Life Lost due to premature mortality, YLLs), anni di vita vissuti in condizioni di salute non ottimale o di disabilità (Years Lived with Disability, YLDs) e di attesa di vita corretta per disabilità (Disability-Adjusted Life-Years, DALYs).

 

L’interpretazione dei complessi modelli statistici è resa accessibile da soluzioni grafiche (data visualization, supportate anche da una guida) di facile lettura e interattive.

 

Nhs vs Ssn?

Tra i profili per Paese pubblicati da The Lancet all’inizio di marzo c’è, naturalmente, anche quello dell’Italia (pdf 217 kb), che, forse a sorpresa, si colloca in ottima posizione per risultati di salute. Il nostro Paese è ancora al secondo posto come aspettativa di vita: primo tra le nazioni europee e superato solo dal Giappone a livello globale. Ancora più importante il fatto che la longevità (circa 81,5 anni) si accompagna a condizioni di salute buone, ovvero a periodi limitati di disabilità. I maggiori fattori di rischio restano quelli legati alle abitudini alimentari, all’ipertensione arteriosa e al fumo di tabacco. Quest’ultimo, come fumo passivo, pesa significativamente anche sulla salute in età pediatrica. Le cause principali di mortalità prematura continuano a essere le malattie cardio e cerebrovascolari e i tumori delle vie respiratorie. Buone notizie arrivano sul fronte della cirrosi, diminuita del 38% come fattore di morbilità dal 1990 al 2010.

 

I dati relativi al Regno Unito, invece, mostrano un miglioramento degli esiti rispetto ai dati nazionali del 1990, ma con una progressione più lenta rispetto a quasi tutte le altre nazioni sviluppate. Come dire che gli inglesi si sono lasciati sorpassare e sono scivolati verso il basso nelle classifiche del GBD 2010. Se nello studio del 1990 si posizionavano al di sopra della media in 8 dei 30 gruppi di malattie, in quello del 2010 la loro superiorità si mantiene solo in 3. I dati del Regno Unito sono particolarmente insoddisfacenti per quanto riguarda la mortalità prematura (tra i 20 e i 54 anni) probabilmente gravata dall’abuso di alcol e dall’uso di stupefacenti.

 

Questi numeri hanno scatenato un certo dibattito nel Regno Unito e infatti sono stati ripresi con toni piuttosto critici sia da riviste scientifiche come il British Medical Journal e dallo stesso The Lancet, sia dai media, a partire dalla Bbc. La storica emittente nazionale, in particolare ha voluto approfondire il confronto con i dati italiani, chiedendosi a che cosa si debba uno scarto di circa 18 mesi nell’aspettativa di vita a vantaggio dell’Italia e riflettendo sul fatto che gli italiani fumano di più dei britannici (ma solo a partire dal 2006) e che per anni il nostro Sistema sanitario nazionale (Ssn) ha speso di più del National Health Service, Nhs (soltanto ultimamente si è invertito questo rapporto).

 

Il dividendo degli investimenti in prevenzione

«Oggi vediamo gli esiti di dinamiche non recentissime legate alla cosiddetta transizione epidemiologica che ha migliorato complessivamente le condizioni della vita in Italia. In particolare per quanto riguarda le abitudini alimentari», commenta Stefania Salmaso, direttore del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della Salute (Cnesps) dell’Istituto superiore di sanità. «A partire dagli anni ’60, la dieta degli italiani è notevolmente migliorata, arricchendosi di frutta e verdura fresca, pesce e diventando più varia. Inoltre, l’olio d’oliva è parte della tradizione alimentare della dieta mediterranea, mentre nella dieta britannica prevalgono i grassi di origine animale».

 

Anche le modalità del bere sono radicalmente diverse: in Italia domina ancora il consumo di vino ai pasti, nel Regno Unito si preferiscono, oltre alla birra, i superalcolici, e il binge drinking è una drammatica realtà. Ma su questo aspetto non ci si deve illudere: «Queste abitudini stanno cambiando rapidamente specie tra i giovani e rappresentano una minaccia per la salute pubblica con un possibile forte impatto in futuro», continua Salmaso.

 

«Un contributo importante alla salute degli italiani deriva anche dalle iniziative istituzionali di promozione di stili di vita salutari come Guadagnare Salute e di monitoraggio finalizzato alla programmazione degli interventi sanitari rappresentate dal sistema delle sorveglianze come OKkio alla Salute e Passi», puntualizza Stefania Salmaso. L’investimento in prevenzione da parte della nostra sanità pubblica degli ultimi anni sembra quindi pagare dividendi, a dispetto della crisi. Sarebbe veramente un peccato disperdere quegli sforzi.

 

Risorse utili