English - Home page

ISS
Istituto Superiore di Sanità
EpiCentro - L'epidemiologia per la sanità pubblica
Istituto Superiore di Sanità - EpiCentro

Il viaggio



Mirella Taranto - Ufficio stampa, Istituto superiore di sanità (Iss)

 

2 agosto 2018 - A un certo punto ho visto solo il mare. Nulla davanti, niente alle spalle. Non distinguevo più neanche la linea che lo separava dal cielo. Dove stavo andando adesso non lo sapevo più ma, soprattutto, non sapevo più da dove venivo e chi erano quelle centinaia di persone accanto a me che invocavano Dio in quell’attimo sospeso dove la vita era tutto ciò che potevi vincere, ma anche tutto ciò che potevi perdere.

 

Così mi sentivo quando mi sono imbarcato, a qualche miglia dalla costa. Non sentivo più neanche l’odore del mare. Solo quello del legno delle stive che entrava nel fondo delle narici e si mescolava al sudore.

 

E così ci siamo accorti che eravamo noi a salvare la barca che lei di certo non ci avrebbe salvati. Cercavamo un equilibrio perché il nostro peso, eccessivo, non la facesse affondare, una geometria umana in grado di resistere alle leggi della fisica.

 

Poi piano piano il mare aveva cambiato colore. Era solo acqua. Non sembrava più lo stesso che vedevamo dalla terra. Non sapeva d'infinito, non odorava di salsedine. Puzzava di benzina. Non sentivo più che lo dovevo attraversare. Sentivo che lo dovevo superare, vincere. Era acqua da cui sognavo terra. Di quello che c’era prima del mare me ne sono ricordato dopo.

 

Quando la mia vita mi è cascata addosso e i ricordi sono arrivati come un fiume. Mia madre, prima di tutti, mentre mi salutava: “mamma non piangere, l’Europa è bellissima e io ritornerò”. Per ora ho impiegato cinque anni solo per avere un nome e un cognome in questo paese. Sono solo pochi mesi che ho riavuto i miei documenti, pochi mesi che mi chiamo Manuel anche per lo stato italiano. Quando sono arrivato qui non pensavo che si parlasse un’altra lingua. Per me i bianchi parlavano solo in inglese e perciò ormai ero due volte straniero. Certo che a parlare poco mi ci avevano abituato in Libia. Ho fatto tanto per arrivarci. Non è una passeggiata il deserto. Ti scordi pure quello che hai nel cuore quando ti travolge l’arsura e la pelle brucia tanto forte che credi che da lì a poco prenderanno fuoco anche le ossa. E ti ritrovi a bere l’acqua di un pozzo dove galleggia il corpo di un bambino, assetato pure lui, evidentemente. Ma quanti ne ho visti durante il viaggio di bimbi cadere? Nei pozzi, nella fame, nella paura che li divorava ancora prima della morte. Pensavo: “il giorno che mi abituo sono finito”, per fortuna non mi sono abituato mai. Sono scappato prima dalla guerra e poi dalla fame ma il viaggio è stata una nuova guerra, ha aperto un’altra ferita e ho visto tutto un altro lato del dolore. Tutti i mesi che ci sono voluti per arrivare al mare non sono stati più leggeri della guerra che ci aveva costretto a trasferirci da Maiduguri verso il Sud della Nigeria. Uccidevano i cristiani come mosche. Così è morta la fidanzata di mio fratello. Massacrata a bastonate, davanti casa sua. Senza un perché. Bastava respirare per essere accusati di offendere Allah. Mai nessun Dio è stato nominato più invano. Poi a ucciderci fu la fame. Cominciammo in tanti a migrare già allora, verso il Sud del Paese. In troppi. E il prezzo della benzina che saliva vertiginosamente non ci permetteva di lavorare. Figurarsi a me e mio padre che di mestiere facevamo i saldatori in un paese dove non c’era corrente elettrica. Eppure io una famiglia la volevo. Bella come la mia. Cinque fratelli e un padre e una madre che sono l’unico vero rimpianto che ho, l’unica morsa allo stomaco a cui a volte mi sembra di non resistere.

 

Non ne voleva sapere mia madre di vedermi partire ma io non avevo scelta, mancava pure la luce per lavorare e il futuro scompariva ogni giorno.

 

E così sono partito. Così ho iniziato a resistere. A volte penso di aver sognato. Di avere solo immaginato, mentre camminavo per andare sulla costa, di aver incontrato uomini che compravano altri uomini e li vendevano come bestie. Di aver solo sognato di essere stato in Libia. Di essere stato nel frattempo venduto e recluso in un luogo dove uscivo solo per andare a lavorare e dove era proibito parlare. E devo averlo sognato anche quel colpo di pistola, sparato a freddo solo perché la fame aveva squarciato il silenzio con un grido: “ci volete far morire di fame?”. Un colpo solo, secco. A mo’ di esempio. Perché era proibito parlare, figuriamoci urlare. Si andava al bagno per alzata di mano. Come per bere. Era permesso solo alle lacrime di scendere, anche copiose, purché mute. Mute nonostante i bambini morissero di stenti e venissero seppelliti in una fossa comune, mute nonostante le donne venissero sistematicamente stuprate e derise, mute anche quando sai che è troppo tardi per tornare indietro e troppo presto per arrenderti.

 

Eppure la mia non era una prigione. Potevo uscire per andare a lavorare, ovviamente senza retribuzione, ed ero picchiato solo se disobbedivo, o se soltanto parlavo contravvenendo alla consegna del silenzio.

 

Mohamehd, invece, il mio amico, era scappato dalla Costa d’Avorio. Laggiù i “microbes”, giovani criminali seminavano il terrore nella popolazione di fronte a un governo impotente, o forse indifferente. Scappava perché gli avevano bruciato la casa anche se avevano risparmiato la sua famiglia. Era andato a fare il pane al forno, come tutte le notti, ma quella notte avevano minacciato sua moglie che se fosse mai tornato glielo avrebbero restituito a pezzi. Un pezzo al giorno. E così la sera spesso mi racconta quella che era la sua vita, di una nostalgia che non lo abbandona mai e per cui non c’è rimedio.

 

“È da quella maledetta notte che sogno Awa. Tutti i giorni. E tutte le notti. È bellissima la mia Awa. Mille volte più di tutte quelle che ho visto prima di lei e mille di più di tutte quelle che incontrerò per tutto il resto della mia vita. È da allora che non la vedo. Due anni ormai. Da quando quella notte ero andato a lavorare e al mio ritorno ho visto solo fiamme. Il mio bambino più piccolo aveva sei mesi, la più grande sette anni. Oggi lui ha due anni e lei nove. Il maschietto non si ricorda di me e non gli ho mai sentito pronunciare il mio nome. Sa che io esisto ma solo Dio sa quando lo rivedrò. Perché da quella notte si è spezzata la mia vita, si è interrotto il mio respiro, si è fermato il mio cuore. Ancora oggi non è ripartito del tutto.

 

Ho dovuto fare un viaggio mio malgrado e così ho imparato che a volte è già una vittoria restare umani e resistere alla tentazione di morire. Perché arrivare nella prigione libica, dopo essere stati venduti come schiavi, è un inferno per cui non bastano le parole. Fuggi dall’orrore e ti ritrovi nell’abisso. Anche il tuo dolore è una merce, buona per ricattare al telefono i tuoi familiari che vengono chiamati per assistere al rumore delle botte e degli insulti che cesserebbero soltanto al pagamento di un riscatto.

 

Arrivavamo là che eravamo già morti. Carne buona per alimentare i vermi. Senza distinzione tra donne uomini e bambini. Con qualche riguardo per chi poteva essere messo a fare lavori pesanti. Eravamo solo corpi che potevano finire da un momento all’altro. E che spesso finivano anche vivi nelle fosse che gli stessi aguzzini usavano come toilette. Bestie da soma. O da diporto. A seconda dell’estro dei carcerieri.

 

Non riuscivo ormai neanche a sorridere quando ai libici è arrivato il mio riscatto, quando il mio migliore amico è riuscito a inviare i soldi, lo stesso che mi ha aiutato a fuggire e che aiuta quando può la mia famiglia, lo stesso che cercava di rassicurare mia moglie che sarebbe finita mentre i miei carcerieri la chiamavano al telefono per farla assistere alle torture.

E così sono arrivato al mare, dove una barca malconcia, tenuta ferma dal peso degli uomini al bordo e da quello meno consistente delle donne sedute al centro, ha preso il largo. La benzina si mischiava all’acqua del mare che entrava nella barca e attaccava la pelle lasciando scoperta la carne mentre le donne sollevavano in alto i bambini perché non subissero la stessa sorte.

Ma cosa vuoi che sia. La morte e la vita lungo quel viaggio erano diventate un punto indefinito tra il cielo e il mare. Senza più ormai una linea di confine.