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Istituto Superiore di Sanità
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Casi di leucemia linfoblastica infantile a Milano: le indagini della Asl

di Anna Pellizzone - redazione EpiCentro; a colloquio con Luigi Bisanti - direttore Servizio di epidemiologia, Asl Città di Milano

 

 

29 luglio 2010 - Tra il 14 dicembre 2009 e il 14 gennaio 2010 tre allievi di una scuola elementare di Milano hanno manifestato i sintomi di leucemia linfoblastica acuta. Nel medesimo lasso di tempo, in città si sono registrati altri quattro casi della malattia. Sette casi in totale, quindi, di cui quattro nello stesso quartiere e tre nella stessa scuola. Il tutto in sole quattro settimane.

 

Si tratta di numeri importanti, soprattutto se si considera che la leucemia infantile è una malattia rara, che nei Paesi occidentali colpisce ogni anno 35-45 bambini per milione. «Statisticamente», commenta Luigi Bisanti, direttore del Servizio di epidemiologia della Asl Città di Milano, «è improbabile che questo cluster si sia verificato per caso. In tutta la città siamo abituati a vedere dai 7 agli 11 casi di leucemia linfoblastica infantile in un anno e quindi la probabilità che se ne verifichino 7 in un solo mese è molto bassa». A meno che non siano l’effetto di una concentrazione elevata di fattori di rischio: è proprio nella ricerca di questi fattori che la Asl, prima su richiesta del preside della scuola e poi per incarico della Procura di Milano, ha concentrato i propri sforzi.

 

Il gruppo di lavoro e i fattori di rischio

Come prima cosa l’azienda sanitaria ha deciso di organizzare una serie di incontri con i genitori della scuola. «Le riunioni sono state decisamente positive», dichiara Luigi Bisanti, «perché, nonostante il clima fosse molto allarmato, siamo riusciti a trovare un linguaggio comune e a elaborare insieme un programma per gli accertamenti». Un piano che, tra le altre cose, ha dovuto tener conto anche del fatto che il complesso scolastico aveva riaperto i battenti nel settembre 2009. Nei tre anni precedenti in cui l’edificio era stato chiuso per ristrutturazione, infatti, gli allievi erano stati ospiti di un’altra struttura. «A questo punto, le ipotesi da vagliare sulla base delle informazioni disponibili erano quattro», spiega il dirigente della Asl, «la prima, secondo la quale i fattori di rischio avrebbero potuto essere nella scuola in questione, la seconda per cui avrebbero potuto essere nella struttura provvisoria, la terza nel quartiere e la quarta in città».

 

Il tutto con la complicazione non indifferente che, ad oggi, «non conosciamo esattamente le cause della leucemia, anche se la letteratura è ricca di indicazioni sui possibili fattori di rischio. Tra questi, il più robusto è l’esposizione a radiazioni ionizzanti, seguito da molti altri che però sono debolmente associati alla malattia (pesticidi, solventi, campi magnetici, fumo di sigaretta ecc)».

 

Le indagini

In seguito alle riunioni con i genitori degli studenti, la Asl ha steso un programma per gli accertamenti che ha tenuto conto sia delle indicazioni di letteratura, sia delle esigenze dettate dalla situazione di allarme che si era diffusa tra i genitori. «Abbiamo indagato l’esposizione dei bambini e dei genitori ai raggi X, alla formaldeide, ai composti organici volatili, ai campi magnetici. Ma anche alla radioattività dell’acqua e ai campi elettromagnetici da radiofrequenze. Con le indagini siamo partiti subito concentrandoci sui quattro casi del quartiere, facendo molto più di quanto fosse giustificato dalle segnalazioni della letteratura, perché questo era quello che richiedeva la situazione di emergenza che si era venuta a creare. Per esempio, abbiamo misurato anche le concentrazioni di radon: un cancerogeno che sappiamo benissimo essere legato a tipi di tumori diversi dalle leucemie. E abbiamo fatto tutto il più velocemente possibile, in modo da dare delle risposte prima della chiusura estiva della scuola», prosegue Bisanti.

 

I risultati

Nonostante l’ampio spettro delle ricerche, però, i risultati ottenuti non sono stati capaci di render conto del cluster di leucemie. «Le indagini», sottolinea Bisanti, «hanno dimostrato come i fattori associabili alle leucemie fossero assenti o presenti in concentrazioni convenzionalmente ritenute accettabili. Per uno dei bambini abbiamo trovato una piccola esposizione a pesticidi, per un altro un’esposizione dei genitori al benzene, per un terzo la vicinanza dell’abitazione ai cavi elettrici del tram. Si tratta però di fattori insufficienti a spiegare l’aggregazione di sette casi in un mese. Certo, le zone urbane vaste e ad alta densità si portano dietro cronicamente un’esposizione più alta a questo o a quel fattore di rischio. Sicuramente questo non aiuta, ma non si può concludere che queste piccole concentrazioni in eccesso possano aver provocato le leucemie. Tra i tantissimi fattori di rischio segnalati in letteratura, quindi, non siamo riusciti a trovare nulla che possa spiegare la concentrazione dei casi. Per questo abbiamo chiuso il capitolo più urgente legato alla scuola e ne abbiamo aperto un altro».

 

Il nuovo fronte: leucemie e virus

Fuori dall’emergenza, che richiedeva risposte immediate riguardo alla sicurezza dell’edificio scolastico, con tempi d’indagine più lunghi e investimenti di risorse molto maggiori, la Asl ha deciso di provare a trovare delle spiegazioni per il cluster al di fuori di quelle suggerite dalla letteratura.

 

«Che ci sia una qualche relazione tra esposizione a virus e leucemie», spiega il dirigente della Asl, «è confermato da diversi lavori. Per esempio, se un bambino è esposto al Citomegalovirus, al virus della mononucleosi infettiva o ad altri virus più specifici, il rischio di sviluppare una leucemia aumenta». Ma c’è di più: articoli scientifici di 10-15 anni fa riferiscono che, in coincidenza o comunque in relazione temporale stretta con le epidemie influenzali, qualcosa si muove anche nella frequenza delle leucemie. «Sulla base di queste informazioni abbiamo costruito un modello del tutto teorico, sul quale siamo al lavoro con una squadra di specialisti: immunologi, virologi, oncologi pediatri, epidemiologi e statistici. L’obiettivo è dare una spiegazione, almeno parziale, a quello che è successo».

 

Geni e agenti infettanti

Perché un bambino manifesti una leucemia, è condizione necessaria ma non sufficiente che abbia almeno una o più mutazioni genetiche comprese in un gruppo ampio ma circoscritto. E più le mutazioni si accumulano, più il rischio di sviluppare la malattia aumenta. «Secondo i dati dei colleghi del San Gerardo di Monza, Università Bicocca di Milano, verosimilmente circa l’1% di tutti i nuovi nati si porta dietro dalla nascita almeno una delle mutazioni leucemogene. Una percentuale molto alta, soprattutto se si considera che poi in Italia, per fortuna, solo 50 bambini su un milione sviluppano effettivamente la malattia. Ciò significa, quindi, che le sole alterazioni genetiche non sono sufficienti a determinare la malattia. Occorre  che un altro fattore - o verosimilmente più fattori aspecifici - intervengano a “slatentizzare” una malattia fino a farla diventare manifesta clinicamente. Tra questi fattori, è possibile che ci siano agenti infettanti e alterazioni del sistema immunitario. In sostanza nei soggetti con le mutazioni in questione la malattia è già presente, perché nel loro midollo ci sono già i cloni che portano alla leucemia, ma è latente. Gli agenti infettanti, però, possono intervenire e rendere manifesta la malattia», continua Bisanti. Ed è proprio questa la spiegazione che potrebbe star dietro al leggero aumento dei casi di leucemia osservato in passato in corrispondenza delle epidemie influenzali.

 

Un virus sconosciuto: il caso dell’A/H1N1

La frequenza dei casi di leucemia linfoblastica registrata a Milano nelle quattro settimane a cavallo tra il dicembre 2009 e il gennaio 2010, però, rappresenta un aumento più che “leggero”. Ed è proprio da questa osservazione che è nata l’ipotesi dell’A/H1N1. «Il virus A/H1N1 ha probabilmente la stessa capacità aspecifica del Citomegalovirus o del virus della mononucleosi infettiva di tenere occupato il sistema immunitario o creare altre condizioni che favoriscono la proliferazione incontrollata del clone leucemico», spiega Bisanti, «ma c’è una differenza: questo agente fino al 2009 era del tutto sconosciuto biologicamente. Questo significa che il sistema immunitario si è trovato ad affrontare il virus A/H1N1 ad armi spuntate, perché non aveva da nessuna parte un deposito di strumenti adeguato (gli anticorpi) per poterlo combattere». Una circostanza che, secondo il modello ipotizzato dai ricercatori, potrebbe avere favorito la comparsa del cluster. Ma perché proprio a Milano? E perché proprio in quella scuola?

 

L’ipotesi igienica

Secondo gli esperti, se andassimo ad analizzare il genoma degli allievi coinvolti, la percentuale di soggetti ad alto rischio di leucemia sarebbe uguale a quella di qualunque altra scuola. Per questo i ricercatori hanno ipotizzato che a provocare il cluster milanese sia stato un altro fattore di rischio, determinato non dai geni, ma dalla più alta prevalenza di bambini che sono stati in isolamento infettivo nel loro primo anno di vita. «Quando un bambino nasce, il suo sistema immunitario non è ancora maturo per affrontare tutti gli stimoli offensivi che vengono dall’esterno e anzi acquisisce questa competenza via via che diventa più “esperto”, attraverso l’esposizione ad agenti infettanti. Possiamo dire che gli episodi infettivi, se da un lato sono altamente indesiderati, dall’altro sono un passaggio obbligato per la maturazione del sistema immunitario». In questo senso, spesso, i bambini delle classi sociali più elevate non sono favoriti nel passare attraverso tutte queste tappe di maturazione, perché spesso vivono in famiglie poco numerose e soprattutto non vanno all’asilo nido perché hanno una tata o una babysitter. Ed è chiaro che in una scuola nel centro di una città ricca come Milano è più probabile che l’ipotesi dell’isolamento infettivo, definita anche “ipotesi igienica”, sia più diffusa.

 

Un insieme di fattori

«Probabilmente quella che si è venuta a creare a Milano è una situazione in cui una mano l’ha data il caso, ma una parte l’ha fatta anche l’insieme di fattori di rischio che si è venuto a creare. Se abbiamo un bambino che ha dei tratti leucemogeni nel genoma, che ha un sistema immunitario che non è stato abituato a rispondere alle offese e che per di più è stato esposto a un virus sconosciuto, forse i 7 casi di leucemie in un mese si possono spiegare. Ma ci vogliono molta pazienza, molto tempo e molti soldi prima di capire se le cose siano davvero andate così», sottolinea ancora Bisanti.

 

Comunicare l’allarme

Un ruolo non secondario nella gestione dell’intera vicenda lo hanno avuto i genitori, coinvolti direttamente dalla Asl nella stesura del piano d’indagine. «Come Asl», racconta Bisanti, «siamo partiti con la ferma determinazione di fare tutto nel modo più partecipato e trasparente possibile. Una cosa molto difficile in queste situazioni, perché spesso tra l’istituzione e la popolazione coinvolta non si riesce né a trovare un linguaggio comune né a farsi carico l’uno dei problemi dell’altro». Nel caso specifico, però, il dirigente della Asl di Milano mostra una certa soddisfazione: «il rapporto che abbiamo presentato è frutto di un compromesso tra le esigenze dei genitori (che richiedevano, per esempio, anche l’analisi del Pm 2,5) e la preoccupazione di non spendere inutilmente risorse umane ed economiche in ricerche che già sapevamo non avrebbero prodotto risultati». Un compromesso reso possibile anche dal diretto coinvolgimento nel gruppo di lavoro di tre rappresentanti dei genitori: Mario Clerici, direttore della cattedra d’immunologia dell’Università di Milano, Monica Balzarotti, oncoematologa dell’Humanitas e Maria Cristina Massa. «È stato importante non negare lo stato di preoccupazione generale e non presentarsi con risposte preconfezionate», commenta Luigi Bisanti. «Per fortuna nel momento in cui siamo stati incaricati dalla Procura, e quindi ci siamo scontrati con la necessità del segreto istruttorio, il piano d’indagine steso in collaborazione con i genitori era già stato completato e condiviso con loro».  

 

Un fronte su cui si sarebbe potuto lavorare meglio, invece, è stato la comunicazione dei risultati del rapporto. «Ha avuto un risalto piuttosto scarso la notizia principale: e cioè, che non erano stati trovati i fattori di rischio legati all’ambiente scolastico capaci di spiegare l’eccesso di casi. Se non abbiamo trovato spiegazioni al cluster, vuol dire che le dobbiamo cercare da qualche altra parte. Far passare questo messaggio sarebbe stato importante per far crescere il livello di competenza delle persone. Nel frattempo, l’Associazione italiana di epidemiologia, l’Associazione italiana registri tumori, l’Associazione italiana di ematologia oncologica pediatrica e un po’ tutti coloro che in Italia si occupano di questi temi, hanno inviato al ministro della salute Ferruccio Fazio una nota, sottolineando come quello che è successo a Milano può essere un’occasione per lo sviluppo delle conoscenze sulle leucemie. La nostra speranza è che, anche con l’aiuto delle istituzioni centrali, si riescano a promuovere nuove indagini epidemiologiche nel settore dei tumori infantili», conclude Bisanti.