Informazioni generali
La toxoplasmosi è una zoonosi causata dal Toxoplasma gondii, un 
	microrganismo che compie il suo ciclo vitale, estremamente complesso e 
	diverso a seconda dell’ospite, solo all'interno delle cellule. Il parassita 
	può infettare moltissimi animali (dai mammiferi agli uccelli, dai rettili ai 
	molluschi) e può trasmettersi da un animale all’altro attraverso 
	l’alimentazione con carne infetta. Il Toxoplasma condii non si trova 
	solo nella carne, ma anche nelle feci di gatto e nel terreno in cui abbia 
	defecato un gatto o un altro animale infetto.
	
    
    Sintomi, prevenzione e trattamento
	Nell’infezione da Toxoplasma gondii è possibile distinguere due fasi 
	successive: la prima (toxoplasmosi primaria) è caratterizzata da un periodo 
	di settimane o mesi in cui il parassita si può ritrovare nel sangue e nei 
	linfonodi in forma direttamente infettante. È la fase sintomatica della 
	toxoplasmosi, che si accompagna a ingrossamento delle linfoghiandole, 
	stanchezza, mal di testa, mal di gola, senso di "ossa rotte", a volte febbre 
	e ingrossamento di fegato e milza. Esistono poi casi di toxoplasmosi 
	primaria complicati da sintomi gravi, quali l'infiammazione della zona 
	visiva dell’occhio (corioretinite, che può compromettere la vista) e 
	dell’encefalo, oltre a sintomi attribuibili a una malattia autoimmune. 
	Quest'ultima eventualità è frequente nei malati di Aids o nei soggetti 
	trapiantati, per i quali spesso l’evoluzione è drammatica, perché la 
	risposta alla terapia è insufficiente.
	
	Il soggetto che contrae una toxoplasmosi resta protetto 
	per tutto l’arco della vita da recidive, perché risponde all’infezione con 
	produzione di anticorpi e linfociti specifici.
	
	La risposta del soggetto al Toxoplasma gondii 
	determina il passaggio alla seconda fase della toxoplasmosi (toxoplasmosi 
	postprimaria), caratterizzata dall’assenza di segni clinici e di laboratorio 
	dell’infezione acuta, ma con la persistenza del parassita nell’organismo, "incistato" 
	nei muscoli e nel cervello. Se le difese immunitarie vengono meno (sia per 
	malattia, sia per trattamenti medici), il microrganismo può tornare 
	aggressivo, riprodursi e indurre nuovi danni.
	La toxoplasmosi è ad alto rischio nel caso in cui venga 
	contratta in gravidanza: l'infezione può infatti passare al bambino 
	attraverso la placenta, provocando in determinate circostanze malformazioni 
	o addirittura l'aborto o la morte in utero. La toxoplasmosi rappresenta 
	dunque un importante elemento di cui tenere conto nell'ambito della
	salute materno-infantile.
	
	Allo stato attuale non esiste un vaccino contro la 
	toxoplasmosi: non è quindi possibile garantirne la prevenzione assoluta. Ci 
	sono però una serie di comportamenti e di pratiche che possono ridurre 
	notevolmente il rischio di contrarre questa malattia.
	
		Uno studio che ha coinvolto diversi centri in Europa, tra i quali anche due centri italiani (uno a Napoli e uno a Milano), pubblicato sul British Medical Journal nel 2000, indica tra le principali fonti di infezione nelle donne gravide il consumo di carne poco cotta. Dai risultati emerge infatti che i fattori di rischio principali sono legati all’alimentazione (dal 30 al 63% dei casi dovuti all’assunzione di carne poco cotta). È quindi necessario evitare di assaggiare la carne mentre la si prepara e lavarsi molto bene le mani sotto acqua corrente dopo averla toccata. Lo stesso studio evidenzia che un’altra importante fonte di contaminazione è rappresentata dalla manipolazione della terra degli orti e dei giardini, dove animali infetti possono aver defecato. È quindi necessario che, chi svolge attività di giardinaggio, si lavi molto bene le mani prima di toccarsi la bocca o la mucosa degli occhi. Lo stesso vale per il consumo di ortaggi e frutta fresca, che dev’essere lavata accuratamente sotto acqua corrente.
	
	
	Infine, negli ultimi anni si è ridimensionata 
	l’attenzione nei confronti del gatto come portatore della malattia, in 
	particolare se si tratta di un gatto domestico, alimentato con prodotti in 
	scatola e la cui lettiera è cambiata tutti i giorni (le cisti del parassita 
	si schiudono dopo tre giorni a temperatura ambiente e alta umidità). Il vero 
	serbatoio della toxoplasmosi è invece rappresentato dai gatti randagi, che 
	si infettano cacciando uccelli e topi contaminati, e che possono defecare 
	nel terreno rilasciando Toxoplasma anche per diverse settimane.
	
	Nel caso in cui la donna dovesse essere contagiata 
	durante la gravidanza, è possibile bloccare la trasmissione dell'infezione 
	al bambino attraverso un trattamento antibiotico mirato. Il trattamento più 
	utilizzato è quello con spiramicina, un antibiotico ben tollerato sia dalla 
	madre sia dal feto. Una revisione dei lavori scientifici pubblicati (consultabile sul BMJ, 1999) 
	sulle prove di efficacia della terapia in gravidanza della toxoplasmosi 
	evidenzia la difficoltà di produrre una stima dell’efficacia del trattamento 
	per la scarsità di studi randomizzati confrontabili. Inoltre uno
	studio multicentrico (consultabile su Am. J. Obstet. Gynecol., 1999) ha 
	dimostrato che esistono combinazioni antibiotiche più efficaci (pirimetamina 
	e sulfadiazina) almeno nell’impedire la comparsa di postumi all’anno di 
	vita: l’uso di questa combinazione è d’obbligo quando la trasmissione 
	dell’infezione al feto sia dimostrata attraverso l’amniocentesi. Nel caso in 
	cui il trattamento non sia stato adeguato o sia iniziato troppo tardi, il 
	bambino potrebbe avere una malattia grave già visibile alla nascita.
	
	Con le attuali possibilità di trattamento, almeno il 
	90% dei bambini con toxoplasmosi congenita nasce senza sintomi evidenti e 
	risulta negativo alle visite pediatriche di routine. Solo attraverso 
	indagini strumentali più raffinate possono essere rilevabili piccole 
	anomalie a carico dell’occhio e dell’encefalo.
	
	Le probabilità di trasmissione dell’infezione materna 
	al feto aumentano man mano che la gravidanza progredisce: i bambini la cui 
	mamma abbia contratto la toxoplasmosi dopo le 16-24 settimane 
	di gestazione appaiono spesso normali alla nascita, anche se opportune 
	indagini strumentali possono mettere in rilievo alcune anomalie. I feti 
	contagiati nelle prime settimane di gravidanza, invece, sono quelli che 
	subiscono le conseguenze più gravi dell’infezione congenita: interruzione 
	spontanea della gravidanza, idrocefalia, lesioni cerebrali che possono 
	provocare ritardo mentale ed epilessia, ridotta capacità visiva che può 
	portare fino alla cecità.
	
	
   	Diagnosi
	Poiché la malattia è spesso asintomatica, idealmente 
	sarebbe bene conoscere il proprio stato prima della gravidanza, e cioè 
	sapere se nel proprio siero siano presenti gli anticorpi per la toxoplasmosi. 
	Si tratta di un semplice esame del sangue: chiamato Toxo-test, permette di 
	classificare le donne in tre classi: "protetta", "suscettibile" o "a 
	rischio".
	
	L’infezione induce nel corpo la produzione di 
	immunoglobuline specifiche: nella prima fase della malattia (quella 
	pericolosa per il nascituro) vengono prodotte IgM, successivamente (in una 
	fase meno rischiosa) gli anticorpi prodotti sono di classe IgG. Il Toxo-test 
	permette quindi di verificare l’assenza o la presenza di anticorpi, e, in 
	questo secondo caso, di evidenziare se si è ancora in una fase a rischio o 
	se invece la donna è da considerarsi protetta. Se la condizione della donna 
	non è nota prima della gravidanza, allora il Toxo-test deve essere 
	prontamente eseguito durante la gravidanza, con la prima serie di esami del 
	sangue entro le prime otto settimane di gestazione. Se la donna è protetta 
	(ha gli IgG) il test non deve più essere ripetuto. Nel caso in cui invece la 
	gestante sia "suscettibile", e quindi non abbia gli IgG né gli IgM, deve 
	eseguire almeno altri due controlli nel corso della gravidanza, a 20 e 36 
	settimane, per escludere la possibilità di essersi infettata e che quindi il 
	bambino rischi di contrarre una toxoplasmosi congenita.
	
	Nel caso in cui il test dia come risultato la presenza 
	di anticorpi IgM, l’infezione in gravidanza è comunque solo sospetta. Si 
	procede quindi con test sierologici più sofisticati presso centri di 
	riferimento di riconosciuta esperienza sia per accertare la diagnosi sia, 
	eventualmente, per disegnare una terapia. Se l’infezione è confermata, il 
	nascituro, anche se apparentemente sano, dovrà essere seguito per almeno 
	tutto il primo anno di vita da un centro specializzato per poter escludere 
	eventuali danni cerebrali e visivi che insorgano nei mesi successivi.
