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Malattie cardiovascolari: è utile ridurre il consumo di sale?

Chiara Donfrancesco, Luigi Palmieri, Serena Vannucchi - reparto di Epidemiologia delle malattie cerebro e cardiovascolari, Cnesps-Iss

 

20 ottobre 2011 – In netto contrasto con la letteratura scientifica, che da tempo associa un elevato consumo di sale a un aumentato rischio di ipertensione arteriosa e insorgenza di malattie cardiovascolari, uno studio europeo (Flemengho e Epogh), pubblicato su Jama a maggio 2011, riconsidera la consolidata evidenza mettendo in discussione le attuali raccomandazioni per una riduzione generalizzata del consumo di sale a livello di popolazione [1].

 

I dati dell’indagine, considerata dagli epidemiologi cardiovascolari scarsamente significativa, riportano infatti che nel campione di popolazione arruolato (4547 persone, di cui però solo 3681 analizzabili per completezza dei dati, seguite per 7,9 anni) la pressione sistolica, e non la diastolica, è associata all’escrezione di sodio e questa associazione non si accompagna a un maggior rischio di ipertensione, né di malattie cardiovascolari [1].

 

Il dibattito sollevato

La pubblicazione di questi risultati ha suscitato un importante dibattito nell’ambito delle istituzioni pubbliche impegnate, ormai da tempo, nelle strategie di popolazione per la riduzione del sale negli alimenti e in interventi di promozione ed educazione alla salute avviati per ridurre il rischio globale delle malattie cardio e cerebrovascolari, della malattia renale cronica, e di altre patologie cronico-degenerative compresi i tumori. I Centres for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta e l’European Heart Network hanno messo in evidenza i punti deboli dello studio: la scarsa numerosità della popolazione arruolata, l’età troppo giovane (età media alla linea base di 40 anni), la confusione creata nel riportare risultati raccolti in realtà solo su pazienti ma proiettati sulla popolazione generale [2;3].

 

A supporto dell’articolo del Jama, è seguita la pubblicazione di una revisione Cochrane che riporta la metanalisi di 7 studi su pazienti normotesi e ipertesi e su un gruppo di pazienti con scompenso cardiaco. I risultati di questa metanalisi evidenziano che la riduzione del sale nell’alimentazione non è accompagnata da una riduzione di mortalità totale nei normotesi e negli ipertesi, come pure nei pazienti affetti da scompenso cardiaco. Dunque, anche questi dati hanno portato gli autori a dichiarare che la riduzione del sale non è da raccomandare come strategia di popolazione in quanto i benefici che ne derivano appaiono scarsi in termini di riduzione della pressione arteriosa [4].

 

Due autorevoli sostenitori delle attività di prevenzione a livello di popolazione promosse in Inghilterra, Feng He e Graham MacGregor, hanno risposto alla revisione Cochrane dichiarando che affermazioni quali «Ridurre il consumo di sale non apporta benefici in termini di probabilità di morire o di andare incontro a una malattia cardiovascolare» richiederebbero l’attuazione di un trial con arruolamento di oltre 28 mila persone da sottoporre ad alimentazione a basso o ad alto consumo di sale per almeno 5 anni. Questo tipo di trial, oltre a essere impossibile per impraticabilità organizzativa, non sarebbe etico in quanto sottoporrebbe un gruppo di soggetti a un elevato consumo di sale esponendolo a gravi danni per molti anni [5]. Non bisogna infatti dimenticare che il consumo di sale è associato non solo alle malattie cardiovascolari, ma anche ad altre patologie cronico-degenerative e ai tumori del tubo digerente, in particolare a quelli dello stomaco [6;7].

 

Le politiche internazionali e i dati italiani

Già nel 2003 un rapporto congiunto Oms/Fao raccomandava, ai fini della prevenzione delle malattie cardiovascolari e di altre malattie cronico-degenerative, che il consumo di sale venisse ridotto a meno di 5 grammi al giorno in media a persona [8]. Più recentemente l’High Level Group on Nutrition and Physical Activity della Commissione europea ha indicato, fra gli obiettivi principali, la riduzione del consumo di sale nella misura del 16% in quattro anni a partire dal 2008 (riduzione del 4% all’anno).

 

In Italia, questo abbassamento si conferma come un obiettivo importante: i dati preliminari del programma Minisal-Gircsi raccolti nell’ambito dell’Osservatorio epidemiologico cardiovascolare (Oec)/Health Examination Survey (Ehes) indicano infatti che il consumo medio di sale pro capite degli italiani adulti (35-79 anni) è tra i più alti dei Paesi europei, con 11 grammi al giorno negli uomini e 9 grammi al giorno nelle donne.

 

La diminuzione dell’introito di sale attraverso un’alimentazione povera di sodio è tra gli obiettivi del programma nazionale Guadagnare salute. In quest’ottica, il ministero della Salute, nel 2009, ha siglato un accordo di collaborazione con le associazioni dei panificatori artigianali e con l’industria per la riduzione del contenuto di sale nel pane del 15% circa in due anni. Il pane è infatti uno degli alimenti che porta a un maggiore consumo di sodio nell’arco della giornata.

 

Le principali evidenze su cui si basano le politiche di riduzione del consumo di sale

Le malattie cardiovascolari (Mcv) rappresentano la prima causa di morte nelle persone di età superiore ai 60 anni e la seconda per quelle comprese tra 15 e 59 anni. Pressione arteriosa (Pa) e colesterolemia, insieme al fumo di sigaretta, spiegano più dell’80% delle Mcv, ma i livelli elevati della Pa sono il fattore di rischio in assoluto più importante.

 

Secondo il World Health Report del 2002 dell’Oms, il 62% degli accidenti cerebrovascolari e il 49% dei casi di cardiopatia ischemica sono attribuibili a livelli elevati della pressione arteriosa [9]. La relazione fra questa e le malattie cardiovascolari è lineare e continua, a partire da valori di 115/75 mmHg (millimetri di mercurio), il che significa che nella maggior parte dei Paesi oltre l’80% degli adulti sono a rischio di Mvc.

 

Importanti studi epidemiologici (Intersalt e Intermap) condotti negli ultimi 20 anni su oltre 10 mila uomini e donne di età 20-59 anni provenienti da 52 campioni di popolazione arruolati in 32 Paesi, hanno messo in evidenza la stretta relazione esistente tra l’assunzione di sodio (espressa come escrezione nelle urine delle 24 ore) e la pressione arteriosa sistolica, nonché la prevalenza dell’ipertensione arteriosa nella popolazione.

 

Studi su modelli animali avevano precedentemente dimostrato il nesso di causalità fra assunzione di sale ed elevati valori pressori [10]. Due trial clinici (Dash) hanno mostrato che sostituendo la classica alimentazione statunitense con un’alimentazione di tipo mediterraneo, si riduce significativamente la pressione sistolica e diastolica sia nei soggetti ipertesi che in quelli normotesi. La riduzione più elevata è stata osservata nel gruppo di persone che oltre al cambiamento di alimentazione avevano anche ridotto il consumo di sale.

 

Una metanalisi di 20 studi clinici controllati ha dimostrato che una moderata riduzione del consumo di sale (5 grammi) riduce significativamente la Pa, sia in pazienti ipertesi che in soggetti normotesi, abbassando di 5,1 mmHg la pressione arteriosa sistolica e di 2,7 mmHg la pressione diastolica nei soggetti ipertesi [11].

 

Infine, una metanalisi di 13 studi prospettici effettuati su 19 coorti appartenenti a 6 diversi Paesi (177.025 partecipanti) con follow up compreso tra 3,5 e 19 anni, che ha raccolto 5350 ictus e 5160 eventi coronarici, ha dimostrato che un’elevata assunzione di sale è associata in modo dose-dipendente a un aumento significativo del rischio di ictus e cardiopatie coronariche: 5 g in meno di consumo di sale (un cucchiaino da tè) è associato a una riduzione del 23% dell’incidenza dell’ictus e del 17% di quella delle cardiopatie coronariche. Il dato sull’ictus è di particolare rilievo poiché in l’Italia il rischio di ictus è molto elevato [12].

 

Qualche riflessione

In conclusione va ricordato che l’esperienza scientifica e il dibattito sull’applicazione dei risultati della ricerca in salute pubblica deve basarsi sui risultati non solo dei trial più recenti, ma sulla esperienza degli studi osservazionali. Tra questi, quelli ecologici, gli studi sperimentali sugli animali, i trial randomizzati e i sistemi di sorveglianza basati su metodologie standardizzate e con criteri diagnostici validati per valutare il trend dei fattori di rischio e delle malattie. Inoltre, se possibile, non limitandosi a valutare solo la singola patologia, ma facendo riferimento all’insieme delle patologie cronico-degenerative, fatali e non fatali.

 

 

Riferimenti

  • K Stolarz-Skrzypek et al: Fatal and nonfatal outcomes, incidence of hypertension, and blood pressure changes in relation to urinary sodium excretion. Jama 2011 305: 1777-1785.
  • G Kolata: Low salt diet ineffective. Study Finds. Disagreement abounds. The New York Times 4 May 2011
  • The Lancet 377 1626, 14 May 2011
  • RS Taylor et al: Reduced dietary salt for the prevention of cardiovascular disease: a meta-analysis of randomized controller trials (Cochrane Review), American Journal of Hypertension, advanced online pubblication 2011
  • FJ He, GA MacGregor: Salt reduction lowers cardiovascular risk: meta-analysis of outcome trials. The Lancet 28 July 2011
  • S Tsugane et al: Salt and salted food intake and subsequent risk of gastric cancer among middle-aged Japanese men and women. British Journal of Cancer. 2004 90:128-134
  • XQ Wang et al: Review of salt consumption and stomach cancer risk: epidemiological and biological evidence. Gastroenterol 2009 15:2204-2213
  • World Health Organization. Diet, nutrition and the prevention of chronic diseases. Report of a Joint WHO/FAO Expert Consultation. Geneva, World Health Organization, 2003, WHO Technical Report Series, No. 916
  • WHO: The World Health Report. Reducing risk, Promoting Healthy Life. World Health Organization, Geneva 2002.
  • D Denton et al: 1995. The effect of increased salt intake on BP in chimpanzees. Nature Medicine, 1:1009–1016
  • He FJ, Mac Gregor GA. Effect of longer-term modest salt reduction on blood pressure. Cochrane Database of Systematic Reviews 2004, Issue 1. Art. No.: CD004937
  • Strazzullo P et al: Bmj 2009;339:b4567 doi:10.1136/bmjb4567