Interpretazioni e criticità dei rapporti sugli infortuni Oms-Ilo e Inail
Domenico Taddeo - presidente Società nazionale operatori
della prevenzione (Snop)
A differenza dei dati Inail, il rapporto Oms-Ilo relativo agli incidenti
sul lavoro, come d’altro canto molti lavori di questo genere che
fotografano un contesto internazionale, è basato su una serie di stime e
non su un quadro di dati statistici documentati. Tuttavia,
l’interpretazione dei dati sulla prevalenza del fenomeno infortunistico
nei Paesi a economie meno ricche, di veloce sviluppo, rispetto alle
economie occidentali e di prima industrializzazione come Europa e Stati
Uniti, è sicuramente condivisibile. Si conferma infatti l’ipotesi che
sia in atto una trasformazione sociologica della produzione industriale,
con fenomeni di spostamento di alcuni tipi di lavorazione e di
trasferimento del rischio nelle aree più povere e a veloce
industrializzazione. Di conseguenza anche certi tipi di infortuni
vengono trasferiti in queste zone.
È importante sottolineare che sotto la dicitura “incidenti sul lavoro”
devono essere incluse, oltre agli infortuni, anche le malattie
professionali. Un elemento fondamentale, se si considera che lo stretto
rapporto tra il lavoro e l’ambiente in cui viene svolto ha forti
ricadute sulla salute del lavoratore, non solo in termini di mortalità,
in seguito all’infortunio, ma anche sotto molti altri punti di vista,
come ad esempio la salute riproduttiva e diversi altri parametri.
Il quadro italiano e i dati Inail
I dati Inail devono essere interpretati con prudenza, in quanto non
sono completi né definitivi per motivi amministrativi che dipendono dal
ritardo con cui vengono chiuse le pratiche. I dati che abbiamo a
disposizione, comunque, indicano che stiamo assistendo a un fenomeno di
trend in calo. Il punto su cui ragionare, però, è se questa riduzione
sia corrispondente alle aspettative o meno. È importante analizzare
criticamente questi dati, valutando se siano imputabili alle recenti
normative, come ad esempio quella sulla sicurezza stradale nel campo
degli incidenti sui mezzi di trasporto, o quella relativa alla sicurezza
sui luoghi di lavoro, la legge 626. È infatti importante sottolineare
che, nonostante questo calo, il trend non è quello che ci si
aspetterebbe proprio in seguito all’attuazione di presidi sanitari e di
normative più stringenti. Considerato il fenomeno di trasferimento dei
rischi in altre aree, come abbiamo visto nel contesto internazionale, e
l’entrata in vigore dei presidi normativi, era lecito attendersi un calo
ben più significativo in Italia.
Il quadro delineato dai dati rilevati, invece, indica una realtà di tipo
misto: si vanno affermando nuove tipologie di rischio mentre coesistono
tipologie di rischio vecchie. Da un lato, dunque, i miglioramenti
tecnologici e normativi hanno ridotto la fatica in alcuni settori del
lavoro anche se hanno aumentato l’intensità nei ritmi e nei tempi del
lavoro. Dall’altro, permangono in determinati contesti alcuni rischi
tradizionali. Contestualmente, dunque, si può avere l’operaio
metalmeccanico che lavora in camice bianco e non si sporca più e
l’addetto alla manutenzione, che lavora per conto di una ditta che offre
servizi all’azienda, che è esposto a molti più rischi, meno prevenibili.
Si delinea dunque un contesto di coesistenza di nuove precarietà, nuove
condizioni di rischio rispetto a situazioni occupazionali più protette e
meno esposte ai rischi lavorativi. Si tratta di rischi più subdoli, meno
udibili, poco visibili, poco misurabili, ma ben presenti, e che
dipendono anche dalla fatica, dall’organizzazione del lavoro, dallo
stress legato alla non sicurezza del posto di lavoro o dai ritmi imposti
dal regime di produzione.
I settori di maggiore criticità
I dati indicano che i settori tradizionali che rimangono più a
rischio sono quelli dell’edilizia, della metalmeccanica pesante e del
minerario. Un discorso a parte può essere fatto per il settore agricolo,
che rimane quello a più difficile censibilità. I dati infatti si basano
sulla ridotta quota parte di censibilità di chi è esposto, mentre molti
incidenti avvengono in situazioni di lavoro nella propria azienda di
famiglia, o in quelle vicine, in situazioni occasionali o stagionali, e
pertanto non vengono denunciati e censiti. Questo è ancor più vero nel
caso di lavoratori stagionali, irregolari, come frequentemente sono ad
esempio i lavoratori immigrati, per i quali non esistono censimenti
ufficiali esaustivi.
Un rischio particolare invece è rappresentato dalle aziende che svolgono
mansioni di servizio alle imprese. In questo caso, i dati Inail devono
essere completati da analisi svolte a livello locale, che evidenziano
condizioni di lavoro, per i lavoratori impiegati in queste imprese di
servizio, molto più stratificate, meno garantite, meno monitorate e
quindi più difficilmente censibili. Si tratta di una situazione di
trasferimento di rischio interno all’Italia, dalle grandi imprese dove
sussistono certe tutele alle imprese minori, che lavorano in
outsourcing, e che quindi non possono, per mantenersi sul mercato a
prezzi vantaggiosi, garantire ai propri lavoratori le stesse condizioni.
Questa realtà finisce con l’influire soprattutto sui dati relativi alle
malattie professionali. Se infatti l’infortunio, soprattutto quando
porta alla morte del lavoratore, non passa inosservato, è molto più
difficile monitorare gli effetti generali del lavoro sulla salute. Già
nei dati relativi ai lavoratori a lungo termine esiste probabilmente in
Italia una grossa sottostima di questo genere di malattie, per
difficoltà di diagnosi, ritardo nelle denunce, accertamento della
malattia a fine carriera e quindi lontano dal luogo di lavoro e dalla
relativa percezione di rischio. Se poi si considera la situazione
attuale, con frequenti e ripetuti passaggi da un lavoro all’altro, con
conseguente diluizione dei rischi e al tempo stesso sommatoria di
fattori di rischio di diversa tipologia, ci si rende conto che è molto
difficile riuscire a far emergere la dimensione reale del problema.
Non è quindi possibile accontentarsi di un trend in calo, ma proprio
perché ci si è avviati sulla strada delle tutele, è necessario operare
con molta più forza per raggiungere dati più soddisfacenti. Soprattutto
in considerazione del fatto che, secondo le stime, esiste un 20-25% di
economia sommersa nel nostro Paese, della quale non abbiamo ancora modo
di valutare l’impatto e gli effetti sulla salute.