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Istituto Superiore di Sanità
EpiCentro - L'epidemiologia per la sanità pubblica
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Obesità, una malattia sociale

Il 2000 ha segnato una svolta per l’umanità: per la prima volta nella storia il numero degli adulti in sovrappeso ha superato il numero di quelli sottopeso. Oggi, è ampiamente riconosciuto che l’adipe corporeo rappresenta uno dei principali problemi di salute nella maggior parte dei Paesi del mondo. Ma per comprendere appieno l’epidemia di obesità è necessario inquadrare il fenomeno in una prospettiva storica. A presentare una visione d’insieme è un articolo intitolato “L’epidemia globale dell’obesità: una panoramica” a firma di Benjamin Caballero, del Center for Human Nutrition della Bloomberg School of Public Health-Johns Hopkins University di Baltimora, apparso sulla rivista Epidemiologic Reviews. Alla luce di questa analisi, emerge come l’obesità non sia da considerarsi come una malattia del singolo individuo, ma anzi come il risultato di tanti fattori ambientali e socioeconomici che condizionano fortemente le abitudini alimentari e gli stili di vita, determinando una diffusione epidemica dell’obesità stessa. È necessario ragionare in questo ordine di idee, sostiene Caballero, se si vuole evitare che l’obesità e le malattie correlate continuino ad affliggere le generazioni future.

 

L’obesità nasce con la rivoluzione industriale

Fino alla fine del 19° secolo, la maggior parte degli uomini ha lottato contro la fame, la povertà e le malattie. Con la rivoluzione industriale si è cominciato a capire che la malnutrizione era una delle principali cause della scarsa produttività e che una popolazione più sana avrebbe agevolato il progresso economico. Nei primi anni del Novecento, si comincia a dare ai bambini integratori dietetici per farli crescere meglio e le diete iniziano ad arricchirsi di alimenti calorici a basso costo, soprattutto grassi e zuccheri. È documentato che dal 1930 in poi la popolazione ha iniziato a ingrassare, in misura via via crescente. Secondo la Fao (Food and Agriculture Organization), nel 2002 la produzione globale di cibo è stata pari a 2600 kcal pro capite e le previsioni stimano che saranno 3000 entro il 2030. All’inizio del 21° secolo, il 65% della popolazione adulta aveva un indice di massa corporea superiore a 25, e il 30% superiore a 30.

 

Peso, Bmi, giro vita: come calcolare l’adiposità

Per ragioni pratiche il peso corporeo è stato utilizzato come un surrogato dell’adiposità, non facile da misurare. Fino agli anni Settanta, l’obesità è stata definita in riferimento al “peso ideale”, calcolato dalle compagnie assicurative come il peso associato a un basso rischio di morte prematura. Negli anni Ottanta, il peso ideale è stato sostituito dal Bmi, l’indice di massa corporea (peso/altezza al quadrato): una persona con Bmi tra 25–30 è sovrappeso, mentre è obesa se il Bmi è superiore a 30. Tuttavia, l’associazione tra Bmi, mortalità e morbilità può variare in differenti gruppi etnici. Studi recenti, per esempio, suggeriscono che la circonferenza addominale sia un indicatore più accurato dell’obesità e del relativo rischio di malattia.

 

Dieta e sedentarietà

Negli ultimi vent’anni, l’apporto calorico della popolazione americana, che ha un tasso di obesità tra i più alti nel mondo, è aumentato di circa 200 kcal al giorno, che corrispondono a un aumento nei consumi di snack, bevande dolci, cibi pronti e altamente energetici, a discapito di cibi freschi, frutta fresca e verdura. I dati suggeriscono che questo aumento calorico sia uno dei fattori responsabili dell’epidemia di obesità. A questo si aggiunge la sedentarietà. Nel 2000, secondo i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) meno del 30% della popolazione statunitense praticava un’attività fisica adeguata, un altro 30% faceva un’attività fisica insufficiente e la restante parte non ne faceva affatto. Questo vale, in particolare, anche per i bambini e gli adolescenti. I Cdc hanno calcolato che nel 2001 appena il 16% dei bambini andava a scuola a piedi o in bicicletta, contro una percentuale del 42% nel 1969. In media, un adolescente trascorre 30 ore a settimana davanti alla tv dove, complice il condizionamento pubblicitario, consuma snack e cibi spazzatura poveri di sostanze nutritive.

 

Un’epidemia globale

Fino a qualche tempo fa, l’obesità era considerata una condizione dei Paesi industrializzati legata a un elevato tenore socioeconomico. Negli ultimi vent’anni, l’obesità è drammaticamente aumentata nei Paesi in via di sviluppo, come Messico, Cina e Tailandia, al punto da spingere nel 1997 l’Oms a riconoscere ufficialmente la natura epidemica globale dell’obesità. Inizialmente, le persone colpite nei Paesi in via di sviluppo erano quelle più ricche, ma la prevalenza poi si è spostata sulle classi più povere.

Il ruolo dell’ambiente “obesogenico”

Molti fattori ambientali giocano un ruolo nella diffusione dell’obesità. In primo luogo, la meccanizzazione e l’automazione dei processi produttivi ha drasticamente ridotto l’energia necessaria per compiere il lavoro. Hanno un impatto notevole sul Bmi della popolazione la mappa urbana, che promuove l’uso delle automobili, richiede lunghi spostamenti e limita le opportunità di camminare; gli spazi pubblici ristretti per fare attività fisica o all’aria aperta; la presenza pervasiva di supermercati, bar e fast food; la crescente dipendenza dai cibi pronti, spesso consumati fuori da casa.

 

C’è un consenso sempre maggiore tra gli esperti di obesità, sostiene l’autore dell’articolo, che cambiare l’ambiente “obesogenico” sia un passo cruciale per ridurre l’obesità. Servirebbero interventi sulla pianta urbana, i trasporti, la pubblica sicurezza, la produzione alimentare e il marketing, per ridurre i fattori che contribuiscono a un maggiore apporto calorico e una minore attività fisica. «I leader politici non dovrebbero più guardare l’obesità come una condizione individuale, ma prendere atto che questa è fortemente condizionata dall’ambiente socioeconomico. È una percezione che deve cambiare dal momento che la minaccia dell’obesità e le malattie correlate sta già colpendo le giovani generazioni in tutto il mondo» conclude Benjamin Caballero.

 

Leggi l’articolo originale (in inglese).