Le malattie croniche, un’epidemia dimenticata
Richard Horton, commento pubblicato su Lancet on line il 5 ottobre 2005
La riduzione dell’impatto delle malattie croniche sulla salute pubblica non rientra tra gli obiettivi di sviluppo del millennio fissati dall’Onu. Mentre i riflettori della politica hanno deciso di puntare su alcune malattie in particolare (Aids, malaria o tubercolosi per esempio), altre condizioni patologiche, anche molto più diffuse e comuni, sono relegate all’ombra dei principali piani di azione sanitari mondiali. E quelle croniche rientrano proprio tra le malattie dimenticate.
Le malattie croniche rappresentano un’ampia fetta di tutte le patologie umane: comprendono quelle cardiovascolari (responsabili del 30% del totale dei decessi nel 2005), il cancro (13%), i disturbi respiratori (7%) e il diabete (2%).
Sono due i fattori di rischio principali per queste patologie: il fumo e l’obesità. Non si tratta di due fattori a esclusivo appannaggio dei Paesi ricchi, però. Anzi, le malattie croniche stanno diventando un problema sempre più grave nelle popolazioni a basso reddito. Il problema è che la ricerca e gli studi su queste patologie nei Paesi poveri è ancora allo stadio embrionale. I pochi risultati a disposizione mostrano comunque come sia cruciale intervenire presto, all’inizio dell’epidemia.
Abbiamo quindi un’opportunità che non possiamo perdere:
possiamo agire ora per prevenire milioni di morti tra qualche anno. Ma abbiamo
veramente la perspicacia e la risolutezza per farlo? Esiste un gap di conoscenze
ancora da colmare nel dibattito mondiale sulle malattie. Un gap che gli
operatori sanitari e i politici non possono più ignorare. L’obiettivo di ridurre
ogni anno del 2% la mortalità per patologie croniche (per prevenire 36 milioni
di morti entro il 2015) merita di essere aggiunto agli attuali otto obiettivi di
sviluppo del millennio.
Senza un’azione politica coordinata e concertata, però, le vittorie ottenute
finora nel contrasto alle malattie infettive rischiano di essere spazzate via da
un’ondata di nuove patologie. Serve allora un forte impegno internazionale per
impedire che questo avvenga.