Il fenomeno suicidario in Italia. Aspetti epidemiologici e fattori di rischio
Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), pubblicate ad aprile 2019 nel rapporto “World health statistics 2019: monitoring health for the SDGs, sustainable development goals” [1], tra il 2000 e il 2016, in tutto il mondo, i tassi grezzi di mortalità per suicidio sono diminuiti del 16% negli uomini e del 20% nelle donne.
Figura: Tassi di suicidialità standardizzati (per 100.000 abitanti), uomini e donne. 2016
Fonte: OMS, World Health Statistics 2019: monitoring health for the SDGs, sustainable development goals
I dati italiani
In Italia si registrano ogni anno circa 4000 morti per suicidio. Poiché il suicidio è un evento estremamente raro nell’infanzia, i tassi vengono calcolati prendendo come riferimento la popolazione di 15 anni e più. Secondo i dati ISTAT della “Indagine sulle cause di morte”, nel 2016 (ultimo anno per il quale i dati sono attualmente disponibili) nel nostro Paese si sono tolte la vita 3780 persone. Il 78,8% dei morti per suicidio sono uomini. Il tasso (grezzo) di mortalità per suicidio per gli uomini è stato pari a 11,8 per 100.000 abitanti mentre per le donne e 3,0 per 100.000. I tassi di mortalità per suicidio sono più elevati nel Nord Italia e, in particolare per gli uomini, nel nelle Regioni del Nord-Est. Sia per gli uomini che per le donne i valori più bassi del tasso di suicidio si registrano nelle Regioni del Sud-Italia [2]. I tassi di suicidio tra gli uomini sono inoltre inversamente proporzionali alla densità di popolazione, verosimilmente in quanto gli uomini sono più vulnerabili a fattori sociali ed economici avversi associati a una minore densità di popolazione [3].
L’analisi dei tassi età-specifici riferita all’anno 2016 mostra che per gli uomini il tasso aumenta costantemente raggiungendo un valore di quasi 20 casi ogni 100.000 abitanti tra gli anziani di età superiore ai 70 anni [4]. Anche per le donne i tassi aumentano con l’età e il tasso raggiunge un massimo di oltre 4 casi ogni 100.000 tra le ultra70enni. Quasi l’80% dei morti per suicidio sono uomini, con un rapporto di genere (uomini/donne) che è andato aumentando linearmente nel tempo, passando da 2,1 nel 1980 a 3,6 nel 2016. I tassi di mortalità per suicidio sono più elevati tra gli anziani, ma è tra i giovani che il suicidio è, analogamente a quanto si registra a livello mondiale, una delle prime cause di morte con una grande differenza nei livelli di mortalità tra ragazzi e ragazze [5].
Il trend storico del tasso di mortalità per suicidio mostra per l’Italia una riduzione a partire dalla metà degli anni Ottanta che si accentua, soprattutto per gli uomini, nella seconda metà degli anni Novanta. Tuttavia, dopo il minimo storico raggiunto negli anni 2006 e 2007, questa tendenza alla riduzione ha subito un arresto. Nel 2008, anno in cui cominciano a farsi manifesti gli effetti della crisi economico-finanziaria, analogamente a quanto osservato in altri Paesi europei e negli Stati Uniti, anche in Italia il tasso comincia ad aumentare tra gli uomini nelle classi di età centrali (tra i 25-30 anni e i 65-69 anni) [6]. L’aumento della mortalità per suicidio tra gli uomini nelle fasce di età centrali prosegue fino al 2012. In seguito alla crisi economico-finanziaria del 2008 non si registra invece un aumento di rischio suicidario tra gli uomini “anziani” e tra le donne si registrano variazioni del tasso molto più contenute. La crisi economico-finanziaria del 2007-2008 è stata considerata la più severa recessione che ha colpito l’Europa dopo la seconda guerra mondiale, paragonabile per alcuni aspetti (quali ad esempio la riduzione dei consumi di beni non durevoli) alla “grande depressione” del 1929 [6, 2, 7]. La minor resilienza degli uomini di fronte ad “eventi critici” è anche rilevabile dal fatto che i tassi età-specifici di mortalità per suicidio aumentano con l’età sia per gli uomini che per le donne, ma per gli uomini si osserva un aumento esponenziale a partire dai 65 anni di età in corrispondenza con l’età al pensionamento [2].
Rischio suicidiario e pandemia di COVID-19
Misure di quarantena collettiva sono state descritte in passato come associate ad un aumento della rischiosità suicidaria [8, 9]. Il pericolo che l’attuale crisi sanitaria, con le associate conseguenze economiche e sociali, possa causare anche un aumento dei suicidi è uno scenario molto probabile ma forse non ineluttabile [6, 10, 11]. La situazione che il mondo sta attraversando è in qualche modo senza precedenti e sono sconosciuti gli effetti a lungo termine del “distanziamento sociale”, del confinamento in casa, della convivenza con una familiare affetto da COVID-19, nonché delle limitazioni all’accesso ai servizi sanitari e di prevenzione e cura (di routine o di emergenza). I ceti sociali più svantaggiati, in particolare, vedono messi a rischio anche il soddisfacimento dei loro bisogni primari, a causa della la perdita del lavoro o della riduzione del reddito dovuto al fermo delle attività produttive. Tutto questo, unito alla paura di essere positivi al COVID-19 e di ammalarsi e/o di far ammalare i propri cari, ha generato un forte stato d’ansia e preoccupazione per il futuro che si ripercuoterà inevitabilmente sulla salute mentale della popolazione e rischia di impattare anche sul rischio di suicidio andando ad aggiungersi e interagendo con i fattori di rischio preesistenti [12, 13].
Senza pretesa di esaustività, tra i fattori di rischio specifici legati alla pandemia di COVID-19 si può elencare:
- distanziamento sociale (che può aver aumentato l’isolamento e la solitudine, annullato i “contatti non intenzionali”, esacerbato problemi di salute mentale)
- consumo di alcol (che può essere aumentato durante il lockdown nei consumatori “a rischio” e che è documentato aumentare nei periodi di crisi)
- violenza domestica (che può essere aumentata durante il confinamento in casa e in seguito per l’insorgere/esacerbarsi dei problemi economici)
- restrizione delle libertà personali
- paura del contagio (paura di essere contagiati e/o di essere veicolo di contagio per gli altri)
- stress e burnout per medici e operatori sanitari
- ruolo della comunicazione (che può aver esacerbato paura e ansia)
- riduzione dei servizi dedicati alla prevenzione e cura del disagio mentale e del suicidio o riduzione del personale ad essi dedicato
- crisi economica con il conseguente aumento della disoccupazione e della precarietà e riduzione del reddito.
Cosa si può fare?
Il filo che lega tutti i fattori di rischio per il suicidio è l’incertezza e la perdita di speranza per il futuro; ma il suicidio si può prevenire se si riesce a intervenire sulla sofferenza psicologica e a ridare speranza ai soggetti in crisi.
Il suicidio si conferma come la risultante di molti fattori (genetici, biologici, individuali e ambientali) e, come indicato anche dall’OMS [14], la malattia psichiatrica non è l’unico fattore di rischio, pertanto le politiche di prevenzione del suicidio non possono essere confinate al solo ambito sanitario ma devono tener conto anche dei potenziali fattori di rischio a livello di contesto sociale, economico e relazionale del soggetto. Inoltre, devono essere considerati anche gli effetti destabilizzanti sulle persone con le quali il suicida era in relazione; i survivor, cioè coloro che sono stati colpiti da un lutto in seguito ad un suicidio, presentano più frequentemente senso di colpa, e sentimenti di rifiuto e abbandono rispetto a chi ha perso qualcuno per cause naturali.
Nonostante la prevenzione del suicidio sia stata individuata come obiettivo prioritario dai maggiori organismi internazionali, solo pochi Paesi nel mondo hanno sviluppato una strategia nazionale per la prevenzione del suicidio e l’Italia non è ancora tra questi [14, 15, 16]. Politiche di prevenzione efficaci devono prevedere un approccio di tipo multisettoriale che tenga conto dei potenziali fattori di rischio a livello di contesto sociale, economico e relazionale del soggetto. Inoltre, una strategia nazionale di prevenzione risulterà essere più efficace se implementata sulla base dell’individuazione dei principali fattori di rischio a livello locale con interventi mirati anche a livello di comunità.
L’ISS è da anni impegnato nello studio dell’epidemiologia e dei fattori di rischio del fenomeno suicidario in collaborazione con il Ministero della Salute, l’Istat, il NESMOS (U.O.C. di Psichiatria, Centro per lo Studio e per la Prevenzione dei Disturbi dell’Umore e del Suicidio) e altri gruppi di ricerca internazionali con l’obiettivo di fornire ai decisori politici informazioni di qualità per l’implementazione di politiche di prevenzione.
Riferimenti
- WHO. World health statistics 2019: monitoring health for the SDGs, sustainable development goals. Geneva: World Health Organization; 2019. Licence: CC BY-NC-SA 3.0 IGO
- Vichi M, Ghirini S, Pompili M, Erbuto D, Siliquini R. Suicidi. In Rapporto Osservasalute 2018: stato di salute e qualità dell’assistenza nelle regioni italiane. Milano: Prex S.p.a, 2019.
- Vichi M, Vitiello B, Ghirini S, Pompili M. Does population density moderate suicide risk? An Italian population study over the last 30 years. European Psychiatry, Volume 63, Issue 1. DOI:https://doi.org/10.1192/j.eurpsy.2020.69
- De Leo D, Vichi M, Kolves K, Pompili M.Late life suicide in Italy, 1980-2015. Aging Clin Exp Res. 2019 Dec 2. doi: 10.1007/s40520-019-01431-z.
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- WHO (2018). “National suicide prevention strategies. Progress, examples and indicators”.