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Istituto Superiore di Sanità
EpiCentro - L'epidemiologia per la sanità pubblica
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Maledetto diabete!

Pietro Greco - giornalista scientifico, Scuola Internazionale Studi Superiori Avanzati (SISSA)

Scrivo nella singolare condizione di paziente (o, almeno, di persona a cui è stato diagnosticato un diabete di tipo II, controllabile con dieta e moto) e di tecnico dei media (un po’ giornalista, un po’ analista) che si occupa di comunicazione della scienza. È difficile separare questi due aspetti della mia condizione.

 

Come malato (o come persona che deve misurarsi con il rischio di diventare malato) ho acquisito in tempi relativamente brevi la consapevolezza di essere al centro di una nuova rete di relazioni sociali che potremmo distinguere in tre diverse classi: le relazioni con il sistema sanitario; le relazioni con gli altri malati; le relazioni con me stesso.

 

Rapporti con gli specialisti

Quando sette anni fa, all’età di 47 anni, ho scoperto – per caso, come avviene di solito – di avere un alto tasso glicemico, dopo tre decenni abbondanti di sostanziale assenza di interazioni ho iniziato a stabilire relazioni con il sistema sanitario. Relazioni selettive e non integrate: per esempio ho escluso il medico di base, pensando di rivolgermi direttamente agli specialisti. Questo perché, essendo costretto a viaggiare molto per lavoro, ritenevo più facile incontrarmi occasionalmente con lo specialista, piuttosto che essere seguito continuativamente da una figura come quella del medico di base. Avrei capito, con il tempo, che si è trattato di una scelta sbagliata: ora penso, invece, che il ruolo del medico di medicina generale vada molto valorizzato.

 

Comunque, l’esperienza con gli specialisti (diabetologi, dietologi) in grandi ospedali di grandi città (Milano e Roma) è stata davvero molto positiva, sia nel metodo (molto amichevole, mai paternalista), sia nel merito: mi hanno consigliato e abbiamo condiviso l’idea di tentare il controllo del rischio diabete senza ricorrere a farmaci, ma modificando gli stili di vita alimentari e motori.

 

Un po’ meno positiva è stata l’esperienza con la struttura specialistica di un piccolo ospedale di provincia, anche in questo caso sia nel metodo (approccio burocratico, tono paternalistico e di aperto rimprovero), sia nel merito: di fronte a un panorama sintomatico non molto diverso da quello degli altri casi, la terapia proposta – dettata – è stata di tipo farmacologico. Tra l’altro, il piccolo presidio locale ha dimostrato una scarsa efficienza anche nel fornire alcune prestazioni di base (per esempio non ho ancora ricevuto, come promesso, il kit per l’autocontrollo del tasso glicemico).

 

So bene di parlare di un’esperienza singola e personale, che non ha alcun valore statistico. Tuttavia questa esperienza personale potrebbe fornire qualche indicazione per la verifica del sistema di gestione (non integrata) del diabete, che probabilmente funziona in maniera differenziata sia nei suoi diversi nodi sia nelle diverse aree del Paese.

 

A posteriori potrei dire che nell’insieme di queste relazioni è quasi sempre mancata la comunicazione necessaria non solo a porre il paziente al centro della rete di gestione integrata del diabete, ma anche quella minima tesa a farne un paziente informato.

 

La rete dei malati

Dal punto di vista dell’intensità di comunicazione è molto più ricca la rete dei rapporti con una comunità che prima della diagnosi di malattia neppure si sa che esiste: la comunità degli altri malati di diabete, che è molto ricca, strutturata e variegata al suo interno. È una rete informale – quella che si stabilisce immediatamente tra i pazienti o le persone a rischio – che nella gestione della malattia ha un peso che non può in alcun modo essere trascurato: è in grado di influenzare i comportamenti dei pazienti – soprattutto quelli che riguardano gli stili di vita – in maniera continua e profonda.

 

La percezione di sé come “paziente”

C’è, infine, la relazione che il paziente stabilisce con se stesso. Quando le analisi (a digiuno, al mattino) hanno indicato che nel mio sangue un certo giorno la glicemia era poco meno di 200 mg/dl e qualche medico mi ha detto che ero «diabetico» (sia pure specificando che la malattia era largamente controllabile attraverso una modifica degli stili di vita) ho iniziato ad avere a 47 anni una percezione – mai fino ad allora avvertita – che la gioventù – e con essa quella strana «sindrome di Achille» che porta a ritenersi invincibili e persino immortali – era passata e che mi ero irreversibilmente inoltrato in un’altra stagione della vita, in cui ti senti improvvisamente vincibile e mortale. La reazione è stata un grido soffocato, ma rabbioso: «maledetto diabete!».

 

Penso di avere qualche strumento culturale per contestualizzare e, tutto sommato, smussare questa transizione. Ma sono anche convinto che la percezione di sé – di considerarsi, a torto o a ragione, “paziente” e non più “sano” – vada tenuta in debito conto nella gestione integrata del diabete. Perché è anche all’interno di questa relazione con se stesso che il “paziente” o “quasi paziente”, o comunque la “persona a rischio”, modula il suo rapporto con la malattia.

 

La persona malata o a rischio di diventare malata ha naturalmente anche delle aspettative, che hanno un carattere sia locale e contingente – personalmente vorrei più dialogo con i medici, più chiarezza e omogeneità nelle indicazioni – sia generale e di prospettiva: mi piacerebbe sapere quale ruolo hanno sui miei tassi glicemici quotidiani alcuni cofattori, come lo stress psicologico o gli stress immunologici, che attraverso l’autocontrollo sembrano avere una correlazione non sempre chiara e lineare con il regime alimentare e l’attività motoria.

 

 

La società dell’informazione, fra opportunità e rischi

Fin qui la percezione e le aspettative di un paziente. Adesso vorrei lasciare la parola al tecnico dei media, il quale sa che la malattia è anche una costruzione sociale. Che la malattia è anche la sua immagine sociale. Che la percezione individuale del rischio non si forma né solo né prevalentemente sulla base di un “razionale oggettivo” (per esempio dalla lettura di alcuni parametri biochimici), ma dipende anche, e spesso soprattutto, da una serie di determinanti culturali.

 

Nella gestione del diabete, per esempio, entra in modo prepotente il rapporto col cibo, un rapporto determinato da un’intera costellazione di fattori psicologici, antropologici, sociologici. La gestione integrata del diabete, per essere efficace, non può ignorare questa costellazione di fattori e non può ignorare che il rapporto col cibo di pazienti con alto livello di cultura che abitano in ambiente urbano è molto diverso rispetto a quello di pazienti con scarsa scolarizzazione che vivono in un contesto rurale. In una società multietnica, i determinanti culturali della percezione del rischio hanno un peso importante e probabilmente decisivo nella gestione di malattie che, come il diabete, richiedono appropriati stili di vita.

 

Ciò implica che la gestione integrata del diabete, per molti versi inedita, debba essere una gestione fondata sull’interdisciplinarità della rete di attori – e di attori competenti – in cui, per esempio, accanto ai medici abbiano un ruolo anche psicologi, antropologi, sociologi, comunicatori.

Ma nella gestione integrata del diabete il ruolo principale riguarda il paziente o la persona a rischio. Non solo perché è lui che gestisce il 90% della sua malattia, ma perché questa persona vive oggi in un contesto di informazione e di conoscenza in cui è sempre più forte la domanda di compartecipazione alle decisioni, anche di carattere medico.

 

Il rapporto paternalistico tra il medico che sa e che decide e il paziente che non sa e attende la decisione del medico è perso per sempre. Non c’è alternativa al modello di gestione integrata della malattia. Il paziente, infatti, non solo è sempre più informato, ma è sempre più convinto di esserlo: al suo medico non chiede una decisione, ma un consiglio per una scelta argomentata tra diverse opzioni possibili.

 

La società dell’informazione e della conoscenza è una società molto complessa e anche molto delicata; spalanca enormi opportunità, ma espone anche a grandi rischi. Le opportunità possono essere aumentate e i rischi diminuiti se cresce a ogni livello nella società la cultura medica e se diventano efficienti i canali di comunicazione tra i vari attori socioculturali.

 

In altri termini, per avere una gestione integrata del diabete che abbia al centro il paziente, occorre una complessa azione di comunicazione pubblica, che è fatta di mille rivoli, di impliciti oltre che di espliciti, di percezione oltre che di informazione e di formazione: una comunicazione di cui non esistono modelli generali. E che va costruita sul campo, per prova ed errore.

 

Guarda le diapositive presentate al III convegno del progetto IGEA.