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Istituto Superiore di Sanità
EpiCentro - L'epidemiologia per la sanità pubblica
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Migranti e virus dell’epatite C: uno studio nell’ambito del progetto PITER

Valutare le caratteristiche demografiche, virologiche e cliniche dei migranti arruolati nell’ambito della Piattaforma Italiana per lo studio della Terapia delle Epatiti viRali (PITER) rispetto a quelle degli italiani: è questo l’obiettivo dello studio condotto all’interno della coorte PITER-HCV, costituita da 10.669 pazienti con infezione cronica da virus dell’epatite C (HCV) i cui risultati sono stati pubblicati ad aprile 2021 sulla rivista Digestive and Liver Disease.

 

I migranti arruolati in questo studio (definiti per Paese di nascita e cittadinanza diversa da quella italiana) sono i pazienti in cura presso i centri afferenti alla rete PITER, distribuiti su tutto il territorio nazionale, e rappresentano il 2,8% della coorte PITER totale. Dato il criterio di consecutività nell’arruolamento dei pazienti, che caratterizza il disegno dello studio PITER, la popolazione analizzata in questo lavoro può essere considerata rappresentativa dei migranti seguiti e curati presso i centri clinici in Italia, per quanto riguarda il quadro clinico, le caratteristiche demografiche, lo stadio della malattia epatica e il profilo di comorbidità.

 

I risultati ottenuti indicano che i migranti arruolati, di cui il 56,5% di sesso femminile, sono più giovani degli italiani (età mediana: 47 vs 62) e con una più alta prevalenza di coinfezione da HBV (virus dell’epatite B). I migranti presentano prevalentemente un’infezione da HCV-genotipo 4, in accordo con l’alta prevalenza dei migranti provenienti dall’Egitto (18,9%) dove il genotipo 4 è rappresentato nel 90% delle infezioni da HCV.

 

Lo stadio della malattia epatica è simile nei due gruppi, con un tasso di risposta alla terapia anti-HCV con i farmaci ad azione antivirale diretta superiore al 96% sia nei migranti che tra gli italiani.

 

Le comordidità (quali malattie autoimmuni, neurologiche/psichiatriche, cardiovascolari, endocrine, ematologiche, diabete tipo 2, dislipidemie e tumori) sono più frequenti negli italiani rispetto ai migranti, così come i cofarmaci assunti. Questo risultato potrebbe essere legato sia alla differenza di età osservata tra i due gruppi, ma anche a una sottostima nella diagnosi o ridotta auto-segnalazione nei migranti rispetto ai nativi. Pertanto, è molto importante che venga aumentata la sensibilità sia da parte del personale sanitario che delle comunità stesse verso un’adeguata diagnosi nella popolazione migrante.

 

L’analisi dei pazienti che hanno eliminato il virus dell’epatite C in seguito al trattamento virale, indica che il 39,1% dei migranti e il 47,1% degli italiani riportano la presenza di almeno un potenziale cofattore di progressione del danno del fegato (per esempio coinfezione da HBV, coinfezione da HIV, abuso di alcol o la presenza di marcatori surrogati di sindrome metabolica).

 

I risultati di questo lavoro non possono dare indicazioni sulla prevalenza dell’HCV nella popolazione migrante in Italia o sull’accesso alle terapie dei migranti poiché l’analisi si basa sulla popolazione già seguita presso i centri di cura. Tuttavia, questo studio porta a importanti conclusioni per la pratica clinica. Specificamente, sebbene in Italia non ci siano restrizioni al trattamento, o differenze di efficacia della terapia con i farmaci antivirali ad azione diretta tra migranti e nativi, è di fondamentale importanza valutare la presenza di comorbidità o cofattori di rischio per la progressione del danno del fegato, indipendentemente dall’eradicazione virale e in questo caso, come raccomandato dalle linee guida dell’Associazione Europea per lo Studio del Fegato (EASL) e dell’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (AISF), proseguire il monitoraggio dei pazienti a lungo tempo.

 

 

Data di creazione della pagina: 6 maggio 2021

Testo scritto da: Loreta Kondili e Maria Giovanna Quaranta - Centro Nazionale per la Salute Globale, ISS